mercoledì 22 ottobre 2014

13 Tales of love and revenge

Fu un' idea di Carlo quella di partire portando con noi Silvia e Lisa.
Non l'avrei permesso. Non l'avrei neppure contemplato se non fosse stato per lui che mi ripeteva "prendila come una cosa normale, la capirai".

Così partimmo, donne in regolare ritardo, alla volta della casa in campagna in cui non tornavo da anni. Ero riuscita a far intendere a Silvia, facendo appello a tutta la mia calma, che non le avrei concesso il posto affianco al guidatore; lei aveva accettato la cosa producendo una confusione allegra da scolaretta che mi innervosiva palesemente.
Il sole che aveva baciato la nostra partenza ci aveva abbandonati quasi subito, lasciando spazio a nuvole pesanti come i dubbi che mi infestavano.

Casa.
Bianca e bruna, col muschio tra i coppi, identica a quella nella mia memoria.
Entrando ero stata avvolta da quell'aria carica di odori che mi stavano accarezzando la faccia come a tranquillizzarmi.
Avevo fatto un giro tra le stanze per assicurarmi che fosse tutto come l'avevo lasciato: libri, mensole, vasi, compreso gli spazi vuoti e rassicuranti.
Con abillità inaspettata aprii tutte le finestre, rimossi le ragnatele e svegliai lentamente la casa.

Intanto fuori aveva cominciato a piovere. Ed eravamo lì, quattro, male assortiti, a contemplare - braccia conserte - dalla finestra il contadino ed il suo gatto che stavano terminando lavori agricoli incuranti delle intemperie.

"Se vuoi puoi farmi la manicure" intervenne nel silenzio Silvia.
Non so perché lo chiese. Ma era piuttosto convinta in quella sua richiesta.
"Io non... non penso di saperti fare una manicure" risposi imbarazzata.
"E' facilissimo. Ti insegno.."
"Non c'è motivo per cui vorrei farti una manicure".

Fece spallucce e riprese a rovistare tra i trentatré dei miei commentando ogni titolo insieme a Lisa.
Era come se volesse a tutti i costi instaurare un rapporto superficialmente amichevole.
Sondare, saggiare la profondità, la pazienza, le risposte che venivano da me. Una sorta di "conosci il tuo nemico". Ma io non avevo voglia di intraprendere guerre di nervi.

"Almeno usciamo".
Carlo aveva già pianificato tutto. Cena, dopocena, un giro nel locale carino ed un salto in quell'enoteca che, dopotutto, siamo sempre al mare.
A qualche chilometro, per la verità, dal mare e dalla vita. Qualche campo odoroso di cipolla dopo. Qualche curva e qualche pioppo dopo.

Silvia e Lisa si erano portate trolley straripanti assolutamente sovrastimati per le 48 ore fuori da Bologna che ci eravamo concessi. Io le solite due cose, infilate di traverso in borse di stoffa. Era da sempre la mia alternativa alla ventiquattr'ore. E me ne pentivo puntualmente tutte le volte che realizzavo di non aver portato l'occorrente per sentirmi all'altezza della situazione.
Così Silvia e Lisa in paillettes, Carlo sempre in giacca ed io infilata in un vestito nero dalla forma non meglio definita.

"Vi porto a mangiare in quel posto sul lungomare che fa la tartare di pesce spada con crema di agrumi".
Da-bere-vino-bianco, ed improvvisamente la situazione mi sembrava confortevole.
Le battute e le allusioni di Silvia però continuavano con l'intento di grattare via poco a poco la superficie per scoprire tutti i nervi.

"Domani lo raggiungo, penso di mattina" confessò.
E la dichiarazione arrivò come una liberazione. Del resto, rimanere sola con Lisa non mi dispiaceva. Sembrava una ragazza sveglia e aveva uno sguardo molto attento incorniciato in un caschetto color cioccolato.

Dopo musica, qualche altro bicchiere, altra strada eravamo tornati a casa.
Le ragazze avevano monopolizzato il bagno. Avevamo deciso di dormire dividendoci due stanze matrimoniali, io e Carlo insieme come da bambini.
"Rimani a dormire qui" aveva detto lei. E io non capivo.
Poi aveva fatto domande sul mio reggiseno, scandagliando la mia fisicità con la bramosia di chi ha a portata la persona che è stata nel cuore e nel letto del proprio amante.

"Forse se facessi come me..."
"Dovresti provare pilates"
"Secondo me potresti cambiare colore di capelli, forse schiarirli un po' ti illuminerebbe il viso"
"Hai mai pensato di tatuarti la schiena?"

Testava il limite.

"Ad Alex piace.."
"Alex è un capitolo chiuso, non mi interessa quel che gli piace. Non più" intervenni.

Dormimmo di sonno pesante e ci svegliammo presto. La giornata era serena e permetteva mare.
Silvia era accigliata.

"Ho pensato a tutto" disse Carlo.
"Adesso andiamo al mare, ti lasciamo alla fermata del bus o alla stazione e tu prendi..."
"Ma non possiamo aspettare che Alex venga a prendermi?" interruppe Silvia.
"Aaah..non sei stupida! Ce la puoi fare a prendere un cazzo di autobus!"
"Preferisco aspettare" replicò.
"Senti. Ho un giorno e mezzo. Non voglio passarlo ad aspettare" chiuse Carlo.

"Ascolta" mi feci avanti.
"Alex non verrà. Non si scomoderebbe neppure per l'Ambasciatore inglese. Fidati non verrà."
"Ma.."
"Troverà un modo per far muovere te. E devi abituartici, tesoro".
"Io.."
"E poi, andiamo..E' al mare con i suoi. Ti conoscono, loro? Probabilmente Alex non vuole investire neppure una parola per spiegare. E poi i suoi odiano i tatuaggi e tu ne sei ricoperta. Come potrebbe giustificarlo?"
La lasciammo in stazione e ci dirigemmo in spiaggia. Tutto il resto andò come doveva.

Non l'ho vista per mesi, fino all'altro giorno quando entrando in un bar del centro.

"Mi scaldi la pizza tonda, poi vorrei quel tramezzino..Ah, ciao Silvia"
"Ciao"
"Tutto bene?"
Mentre preparava ciò che le avevo chiesto la vidi dare le spalle al banco e sparire in maniera sospetta.
Tornò sorridente, tolse la pizza dalla piastra, l'impiattò e mi porse raggiante quel che le avevo chiesto.
Presi il piatto e d'istinto ci sputai dentro.
"Cosa stai facendo?" disse disorientata.
"Scusi?" feci io rivolgendomi all'uomo alla caffetteria.
"Sarebbe meglio facesse attenzione ai suoi dipendenti. Ho chiesto alla signorina una pizza ed un tramezzino, guardi cosa mi ha servito" dissi con sdegno strisciando il piatto sul banco in marmo e senza aggiungere una parola me ne andai.







martedì 14 ottobre 2014

Prendi una matita

Una volta ho pensato che potendo scegliere quale oggetto essere, avrei optato per una matita.
Qualche volta, con un po' di tempo a disposizione, nascono domande assurde più dei temini alle elementari.
Ma la cosa più straordinaria è che a certi quesiti mai immaginati nascono risposte scattanti e sicurissime.

E così, potendo scegliere cosa essere, sarei matita.
Matita, non penna.
Perchè la matita è una cosa viva; respira ed è fatta di legno e grafite; si consuma con l'uso e ad ogni piroette nel temperino crea gonne ampie bordate in giallo e nero per bambole piccolissime.

Matita mi è sembrata una risposta sensata.
La matita scrive in orizzontale ed in verticale senza sforzo, traccia segni sulla carta, sulla stoffa ed anche sull'intonaco.
La matita salva dall'emergenza di appuntare quella piccola indicazione: un civico di una via in cui sta per partire una storia, un riporto dell'operazione a mente, una segno grafico impellente quando sei al telefono.

Insomma, vorrei essere così: uno strumento ordinario di supporto al prossimo e testimone alla nascita di idee e bellezza.

Sperando sempre che non arrivi un impeto di ira o -peggio- un bambino distratto, una cacca e una suola a carrarmato.


lunedì 13 ottobre 2014

Nessuno mi può giudicare

Giudizio: ovvero l'eterna lotta tra discernimento e sentenza.

Chi ha più giudizio lo adoperi, ma per decidere se usare il senno o meno bisogna decretarsi al di sopra del prossimo.
Io non giudico nessuno! E' impossibile, significherebbe portare avanti una vita senza scelte.

La filosofia definisce il cogito come essenza stessa dell'esistere. Non c'è possibilità di sottrarsi.
Facciamo pace con le responsabilità che derivano dalla facoltà di giudizio andiamo avanti.
In fin dei conti non decidere è già una posizione eloquente.

Io giudico.

Riconosco cosa desidero, quali valori riconoscere e di quali persone circondarmi.

Non accetto la prepotenza, quella fisica di chi si fa svelto per occupare un posto che non gli spetta.
Non mi piace chi già ti ha visto ma s'affretta per tagliarti la strada; chi si accanisce per portarti via anche un centimetro quadro, quando quel piccolo spazio non significa nulla.

Detesto chi non si prende la responsabilità della comunicazione verbale. Chi volutamente sottende per poi giustificarsi dicendo che credeva avessi capito, insinuando anche il sospetto che la colpa possa essere delle tue sinapsi difettose.

Non amo le radiografie di chi si dà, scollatura dopo scollatura senza aver mai condiviso niente più che un sovrabbondante numero di pixel.

Trovo orribile chi passa la vita a definirsi, a vantarsi di un milione di skills espressi in termini anglofoni vuoti come scoregge.

A me basta un gatto, le tue mani che mi spostano i capelli e uno sticazzi pronto all'uso.






domenica 12 ottobre 2014

Erase Rewind

Rimuovere:

Dal latino RE - addietro, MOVERE - muovere.
In inglese remove, in francese remouvoir.

Un senso di protezione nel constatare che le cose ancora si muovono, che è possibile non rimanere piantati e statici.
Si dice rimuovere sempre quando qualcosa è fuori posto, quando qualcosa di nocivo trova modo di spostarsi forzosamente altrove.
Ed è un suono pieno e salvifico quello della rimozione.

Mette al riparo in psichiatria, nelle ricostruzioni, nella medicina stessa.

Rimuovere.
Lasciare che le cose vadano.

Un po' come vomitare.
Un po' come le palle di pelo i gatti.
Un po' come le macchine, che non fa mai piacere, ma si vede che te lo meriti perché l'hai lasciata in mezzo al cazzo.