sabato 15 novembre 2014

L'omino dei selfie

Internet insegna che credersela e raccontarsela, aggrappandosi indefessamente alla propria autostima, sono metodi di infallibile successo.
Così per essere bellissima basta credere e raccontare di essere bellissima; poco a poco gli altri iniziano ad accorgersi di questa evocata bellezza e a sostenerla fermamente.
A parte qualche #epicfail il risultato è garantito a patto che non siate cessi fotonici e che la fede in voi stessi non vacilli mai.

Se davvero vi interessa essere ricordati come les plus beaux e allora forse siete tra le pagine sbagliate.

In ogni caso, esistono persone che costruiscono il loro profilo telematico con il chiaro intento di comunicare la propria sopraffina fisicità, e per perseguire questo scopo mettono a punto delle vere e proprie strategie di bombardamento fotografico.



Non è mia intenzione giudicare questo tipo di approccio al magico mondo del vuvuvù e non lo farò tra queste righe. Vorrei piuttosto porre l'accento sull'incredibile lavoro di scatti che queste persone compiono ora dopo ora.
Mi immagino signorine perfette, con le unghie laccate, che vanno a zonzo per il centro cittadino, munite di borse ingombranti dalle quali al momento più opportuno tirano fuori piccoli uomini addetti ai selfie; gnomi senz'ascia ridotti in schiavitù, alti come puffi  duemeleopocopiù che risvegliati da un sonno in Vuitton rotolano fuori dal secchiello griffato e si posizionano con lo smartphone pronto allo scatto.
L'omino del selfie.
Perchè quelle che sono belle davvero non accettano uno scatto deformato in cui si possa intravedere un braccio che appare meno che perfetto.
L'omino del selfie.
Perchè il bastone è da nonni o sportivi o poveri.



L'ometto deve seguire direttive severissime: sa qual è il profilo migliore della sua padrona e quali sono le inquadrature da evitare. L'omino deve essere sempre pronto a sbucare dalla borsa perché qualsiasi momento potrebbe essere perfetto per una foto. Non so, non sono sicura.. ma un buon ometto dovrebbe poi avere un minimo di nozioni di trucco o almeno tamponare la propria bella con una carina anti-lucido prima di scattarle una pic.

Questo mi immagino.
Me lo immagino con un pile addosso e la febbre.
[Per me c'è sempre voluta troppa costanza per essere perfetti, per avere capelli perfetti, trucco perfetto e il vestito giusto]

L'omino dei selfie.
Perché deve esistere una figura professionale diversa dall'amico disoccupato o morto di figa che tutti i giorno segue la bella consegnando alla storia tutti i suoi cambi di look. E perché diversamente essere amico della bella sarebbe un inferno. O un lavoro.
E perché fondamentalmente chiunque alla terza proposta di scatto nel giro di dieci minuti sarebbe legittimato a mandare a fare in culo il richiedente.

[io mi sentirei stupida ed impacciata al primo mifaiunafoto]







venerdì 7 novembre 2014

Blue. La spunta.

Whatsapp è il principale responsabile delle crisi di panico nelle ultime 48 ore.
Tanta agitazione è riconducibile all'inserimento della funzione che consente di sapere se il messaggio inviato è stato effettivamente letto dal destinatario.
Gli articoli su blog e siti d'informazione si stanno moltiplicando minuto per minuto, si è corsi ai ripari per capire come aggirare il problema e per negare la certezza al mittente del messaggio; abbiamo stilato decaloghi, consigli, spoiler, alert e chi più ne ha più ne metta (qui i suggerimenti de Il Post) ma a me sfugge ancora una cosa fondamentale: Whatsapp non è nato per recapitare messaggi? 
Tutto quello che ci passa per le mani giornalmente è un veicolo per rispondere alla nostra innata necessità di comunicare.


 Inizialmente era comunicazione verbale, poi le informazioni hanno cavalcato i media espandendosi ed amplificandosi; infine tramite la tecnologia ci siamo lasciati schiacciare dalla comunicazione.
C'è chi pondera cosa condividere.
C'è chi è avido di sé e non concede nulla, ma comunque questa social per mangiare la merda che gli altri spammano.
C'è chi semina tutto il giorno informazioni affatto rilevanti.
C'è chi, nel mezzo, è disorientato, chi si sente affine a persone mai viste e deliberatamente non saluta i ragazzi del campetto.
Ci ritroviamo confusi, impossibilitati a cancellare amicizie social per non scatenare reazioni inconsulte, costretti a ricambiare follow, attentissimi a non lasciare tracce in agguerrite sessioni di stalking.



Abbiamo una rigida etichetta web e nessuna idea di come reagire nella vita fuori dallo schermo; la trasparenza diventa un problema e non dare segnali tempestivi di interazione è inammissibile.
Vogliamo iperconnessione ma non siamo disposti a mettere in gioco niente di personale.
Certe risposte esigono riflessione, il momento giusto o più semplicemente possono aspettare. 
E in casi estremi basta il coraggio e la responsabilità di una non risposta.

Ed ora....trash.


mercoledì 5 novembre 2014

GIURO CHE NON VOLEVO (Oh mamma voglio anch'io la fidanzata)

OGGETTO: [facebook --> informazioni personali --> relazioni]



Cari miei,

Non volevo disorientarvi con annunci roboanti.
E' stata una sorta di sfida al "non avresti mai il coraggio".
Il mouse si è mosso automaticamente consegnandomi a internet come la peggiore delle bimbeminkia fuoristagione.
Immediatamente sulla mia bacheca FB si è materializzato un anello dalla caratura in centinaia di pixel e le notifiche hanno iniziato a pioevere copiose.



Lasciatemi elencare alcune considerazioni sul fattaccio:
  1. Nonostante voci eminenti del vuvuvù non facciano altro che stilare classifiche su cosa si debba o meno renedere noto con uno status FB (qui) la verità è che la condivisione gossippara rimane più performante nel suscitare attenzione che il famoso pelo di pheebra.
  2. Si potrebbero scrivere trattati dettagliatissimi, pieni di deduzioni brillanti e ricevere neppure una prova di apprezzamento. Si potrebbero anche scrivere geniali equazioni senza riscuotere la minima approvazione.
  3. L'inaspettato: scatenare emozioni incontrollabili in persone a cui voglio davvero bene.
  4. Non c'è regola che regga. Prima o poi tutti faranno qualcosa di social che non avevano previsto di fare.
  5. L'autogossip -o confessione- genera empatia. 
  6. Riscoperta dell'esistenza di persone che credevi morte. E che si manifestano solo per sincerarsi che io abbia realmente ricevuto una proposta.
  7. Bookmakers impazziti.
  8. L'imponderabile: amici che rispondono ad altri amici confermando o smentendo in modalità ufficio stampa.
  9. Adesso come glie lo dico che non sto per sposarmi veramente?
  10. No, non sono fidanzata con un cane.
Non preoccupatevi. Quando sarà il momento troverò il modo per stupirvi. Ancora.

Love,
Saki.



lunedì 3 novembre 2014

Simply figata

Quando qualcosa funziona è necessario denigrarla a tutti i costi se è commerciale?

Sono della snob-fazione che solitamente preferisce i concerti piccoli di gruppi semisconosciuti che poi crescono ed allora "quando li ho visti io eravamo in dieci".
Per i Kasabian faccio eccezione. E la faccio volentieri. Sabato li ho visti per la settima (!) volta, in occasione del tour di 48:13. E si, li ho visti anche quando non eravamo in tanti a cagarceli.
Però il gruppo continua a spaccare e quindi non mi risparmio.

Per chi non sapesse bene di cosa sto parlando, i Kasabian sono un gruppo britannico che fonde il rock a un'attitudine elettronica da oramai una decina di anni.
Sono Serge Pizzorno e Tom Meighan. Insieme, in due e sono una macchina perfetta.
Si, tecnicamente on stage la formula è arricchita, ma il cuore, lo show e l'intuito è affidato a questi due trentenni di Leicester (si pronuncia Les-tah).


(Serge nel 2012 a Ferrara, direttamente dal mio IG)

Dal vivo la band trasmette una botta di energia non indifferente. Il live è serrato, la scaletta si snoda rapida tra ballate e rock con una digressione al limite della denz. Si salta, si suda, si poga, anche se non nella tribuna di cui sono rimasta prigioniera [mai più tribuna, grazie].





Quel che vorrei scrivere oggi, più che una rece del concertone, è un'ode all'occhio di falco del buon Sergio-Serghio Pizzorno e all'agenzia di comunicazione che supporta il gruppo.
Torniamo a Les-tah ed al fonema che compare sulla t-shirt di Serge durante la performance di Glastombury lo scorso giugno; sin dal video di Eeh-ze (altro fonema) abbiamo visto lo skinny-capellone in abbinata di skeleton jeans e maglietta bianca con scritta. E questo a quanto pare è il leit motiv che porta in tour il bel front man.
La cosa assai sorprendente, lungimirante ed assolutamente ruffiana dell'outfit dei Kasabian -sul quale altrimenti non mi sarei mai pronunciata- è la scelta di una serie di vocaboli in lingua a seconda della località ospite della data.
Sabato sera a milano è stato figata, un messaggio, un hashtag e molto altro.


tratto da qui


Figata è una gag, una assonanza nata dalla pronuncia brit del forgotten, che si ripete nel ritornello di Days are forgotten, singolo di lancio di Velociraptor, penultimo album della band; è un tormentone nato e cresciuto sulle frequenze di Radio Deejay e poi riferito e commentato con la band (qui).
"When we are in Italy we're gonna start singing like that" parola di Serge mantenuta alla grande durante il concerto del 1 novembre a Milano, e concetto rafforzato dallo stesso chitarrista che durante l'esibizione di Assago ha sfoggiato proprio una tee con scritto figata.



Ok. A me Goodbye Kiss non fa impazzire. Non mi fanno impazzire gli escamotage per portare dentro alla musica influenze talmente diverse da far affezionare fruitori di generi troppo diversi (si potrebbe definire renzianismo) e in realtà non impazzisco neppure per i nuovi arrangiamenti dei vecchi singoli con gli archi. Però ai Kasabian si vuole bene.

Si vuole bene ai canuti parenti di Serge, arrivati da Albissola qualche minuto prima dell'inizio del concerto, muniti di letture varie per "farsela passare". Si vuole bene agli auguri di compleanno alla mugliera del chitarrista declamati in un italiano malfermo e del tutto simile a quello del cinese da asporto sotto casa -a proposito, vi siete mai chiesti quante volte cada il compleanno della moglie di un musicista in un anno?-. Si vuole bene alla coda da border collie, attaccata agli skeleton-skinny-jeans che fa tanto calci in culo e l'istinto di tirarla per vincere un altro giro è forte.











mercoledì 22 ottobre 2014

13 Tales of love and revenge

Fu un' idea di Carlo quella di partire portando con noi Silvia e Lisa.
Non l'avrei permesso. Non l'avrei neppure contemplato se non fosse stato per lui che mi ripeteva "prendila come una cosa normale, la capirai".

Così partimmo, donne in regolare ritardo, alla volta della casa in campagna in cui non tornavo da anni. Ero riuscita a far intendere a Silvia, facendo appello a tutta la mia calma, che non le avrei concesso il posto affianco al guidatore; lei aveva accettato la cosa producendo una confusione allegra da scolaretta che mi innervosiva palesemente.
Il sole che aveva baciato la nostra partenza ci aveva abbandonati quasi subito, lasciando spazio a nuvole pesanti come i dubbi che mi infestavano.

Casa.
Bianca e bruna, col muschio tra i coppi, identica a quella nella mia memoria.
Entrando ero stata avvolta da quell'aria carica di odori che mi stavano accarezzando la faccia come a tranquillizzarmi.
Avevo fatto un giro tra le stanze per assicurarmi che fosse tutto come l'avevo lasciato: libri, mensole, vasi, compreso gli spazi vuoti e rassicuranti.
Con abillità inaspettata aprii tutte le finestre, rimossi le ragnatele e svegliai lentamente la casa.

Intanto fuori aveva cominciato a piovere. Ed eravamo lì, quattro, male assortiti, a contemplare - braccia conserte - dalla finestra il contadino ed il suo gatto che stavano terminando lavori agricoli incuranti delle intemperie.

"Se vuoi puoi farmi la manicure" intervenne nel silenzio Silvia.
Non so perché lo chiese. Ma era piuttosto convinta in quella sua richiesta.
"Io non... non penso di saperti fare una manicure" risposi imbarazzata.
"E' facilissimo. Ti insegno.."
"Non c'è motivo per cui vorrei farti una manicure".

Fece spallucce e riprese a rovistare tra i trentatré dei miei commentando ogni titolo insieme a Lisa.
Era come se volesse a tutti i costi instaurare un rapporto superficialmente amichevole.
Sondare, saggiare la profondità, la pazienza, le risposte che venivano da me. Una sorta di "conosci il tuo nemico". Ma io non avevo voglia di intraprendere guerre di nervi.

"Almeno usciamo".
Carlo aveva già pianificato tutto. Cena, dopocena, un giro nel locale carino ed un salto in quell'enoteca che, dopotutto, siamo sempre al mare.
A qualche chilometro, per la verità, dal mare e dalla vita. Qualche campo odoroso di cipolla dopo. Qualche curva e qualche pioppo dopo.

Silvia e Lisa si erano portate trolley straripanti assolutamente sovrastimati per le 48 ore fuori da Bologna che ci eravamo concessi. Io le solite due cose, infilate di traverso in borse di stoffa. Era da sempre la mia alternativa alla ventiquattr'ore. E me ne pentivo puntualmente tutte le volte che realizzavo di non aver portato l'occorrente per sentirmi all'altezza della situazione.
Così Silvia e Lisa in paillettes, Carlo sempre in giacca ed io infilata in un vestito nero dalla forma non meglio definita.

"Vi porto a mangiare in quel posto sul lungomare che fa la tartare di pesce spada con crema di agrumi".
Da-bere-vino-bianco, ed improvvisamente la situazione mi sembrava confortevole.
Le battute e le allusioni di Silvia però continuavano con l'intento di grattare via poco a poco la superficie per scoprire tutti i nervi.

"Domani lo raggiungo, penso di mattina" confessò.
E la dichiarazione arrivò come una liberazione. Del resto, rimanere sola con Lisa non mi dispiaceva. Sembrava una ragazza sveglia e aveva uno sguardo molto attento incorniciato in un caschetto color cioccolato.

Dopo musica, qualche altro bicchiere, altra strada eravamo tornati a casa.
Le ragazze avevano monopolizzato il bagno. Avevamo deciso di dormire dividendoci due stanze matrimoniali, io e Carlo insieme come da bambini.
"Rimani a dormire qui" aveva detto lei. E io non capivo.
Poi aveva fatto domande sul mio reggiseno, scandagliando la mia fisicità con la bramosia di chi ha a portata la persona che è stata nel cuore e nel letto del proprio amante.

"Forse se facessi come me..."
"Dovresti provare pilates"
"Secondo me potresti cambiare colore di capelli, forse schiarirli un po' ti illuminerebbe il viso"
"Hai mai pensato di tatuarti la schiena?"

Testava il limite.

"Ad Alex piace.."
"Alex è un capitolo chiuso, non mi interessa quel che gli piace. Non più" intervenni.

Dormimmo di sonno pesante e ci svegliammo presto. La giornata era serena e permetteva mare.
Silvia era accigliata.

"Ho pensato a tutto" disse Carlo.
"Adesso andiamo al mare, ti lasciamo alla fermata del bus o alla stazione e tu prendi..."
"Ma non possiamo aspettare che Alex venga a prendermi?" interruppe Silvia.
"Aaah..non sei stupida! Ce la puoi fare a prendere un cazzo di autobus!"
"Preferisco aspettare" replicò.
"Senti. Ho un giorno e mezzo. Non voglio passarlo ad aspettare" chiuse Carlo.

"Ascolta" mi feci avanti.
"Alex non verrà. Non si scomoderebbe neppure per l'Ambasciatore inglese. Fidati non verrà."
"Ma.."
"Troverà un modo per far muovere te. E devi abituartici, tesoro".
"Io.."
"E poi, andiamo..E' al mare con i suoi. Ti conoscono, loro? Probabilmente Alex non vuole investire neppure una parola per spiegare. E poi i suoi odiano i tatuaggi e tu ne sei ricoperta. Come potrebbe giustificarlo?"
La lasciammo in stazione e ci dirigemmo in spiaggia. Tutto il resto andò come doveva.

Non l'ho vista per mesi, fino all'altro giorno quando entrando in un bar del centro.

"Mi scaldi la pizza tonda, poi vorrei quel tramezzino..Ah, ciao Silvia"
"Ciao"
"Tutto bene?"
Mentre preparava ciò che le avevo chiesto la vidi dare le spalle al banco e sparire in maniera sospetta.
Tornò sorridente, tolse la pizza dalla piastra, l'impiattò e mi porse raggiante quel che le avevo chiesto.
Presi il piatto e d'istinto ci sputai dentro.
"Cosa stai facendo?" disse disorientata.
"Scusi?" feci io rivolgendomi all'uomo alla caffetteria.
"Sarebbe meglio facesse attenzione ai suoi dipendenti. Ho chiesto alla signorina una pizza ed un tramezzino, guardi cosa mi ha servito" dissi con sdegno strisciando il piatto sul banco in marmo e senza aggiungere una parola me ne andai.







martedì 14 ottobre 2014

Prendi una matita

Una volta ho pensato che potendo scegliere quale oggetto essere, avrei optato per una matita.
Qualche volta, con un po' di tempo a disposizione, nascono domande assurde più dei temini alle elementari.
Ma la cosa più straordinaria è che a certi quesiti mai immaginati nascono risposte scattanti e sicurissime.

E così, potendo scegliere cosa essere, sarei matita.
Matita, non penna.
Perchè la matita è una cosa viva; respira ed è fatta di legno e grafite; si consuma con l'uso e ad ogni piroette nel temperino crea gonne ampie bordate in giallo e nero per bambole piccolissime.

Matita mi è sembrata una risposta sensata.
La matita scrive in orizzontale ed in verticale senza sforzo, traccia segni sulla carta, sulla stoffa ed anche sull'intonaco.
La matita salva dall'emergenza di appuntare quella piccola indicazione: un civico di una via in cui sta per partire una storia, un riporto dell'operazione a mente, una segno grafico impellente quando sei al telefono.

Insomma, vorrei essere così: uno strumento ordinario di supporto al prossimo e testimone alla nascita di idee e bellezza.

Sperando sempre che non arrivi un impeto di ira o -peggio- un bambino distratto, una cacca e una suola a carrarmato.


lunedì 13 ottobre 2014

Nessuno mi può giudicare

Giudizio: ovvero l'eterna lotta tra discernimento e sentenza.

Chi ha più giudizio lo adoperi, ma per decidere se usare il senno o meno bisogna decretarsi al di sopra del prossimo.
Io non giudico nessuno! E' impossibile, significherebbe portare avanti una vita senza scelte.

La filosofia definisce il cogito come essenza stessa dell'esistere. Non c'è possibilità di sottrarsi.
Facciamo pace con le responsabilità che derivano dalla facoltà di giudizio andiamo avanti.
In fin dei conti non decidere è già una posizione eloquente.

Io giudico.

Riconosco cosa desidero, quali valori riconoscere e di quali persone circondarmi.

Non accetto la prepotenza, quella fisica di chi si fa svelto per occupare un posto che non gli spetta.
Non mi piace chi già ti ha visto ma s'affretta per tagliarti la strada; chi si accanisce per portarti via anche un centimetro quadro, quando quel piccolo spazio non significa nulla.

Detesto chi non si prende la responsabilità della comunicazione verbale. Chi volutamente sottende per poi giustificarsi dicendo che credeva avessi capito, insinuando anche il sospetto che la colpa possa essere delle tue sinapsi difettose.

Non amo le radiografie di chi si dà, scollatura dopo scollatura senza aver mai condiviso niente più che un sovrabbondante numero di pixel.

Trovo orribile chi passa la vita a definirsi, a vantarsi di un milione di skills espressi in termini anglofoni vuoti come scoregge.

A me basta un gatto, le tue mani che mi spostano i capelli e uno sticazzi pronto all'uso.






domenica 12 ottobre 2014

Erase Rewind

Rimuovere:

Dal latino RE - addietro, MOVERE - muovere.
In inglese remove, in francese remouvoir.

Un senso di protezione nel constatare che le cose ancora si muovono, che è possibile non rimanere piantati e statici.
Si dice rimuovere sempre quando qualcosa è fuori posto, quando qualcosa di nocivo trova modo di spostarsi forzosamente altrove.
Ed è un suono pieno e salvifico quello della rimozione.

Mette al riparo in psichiatria, nelle ricostruzioni, nella medicina stessa.

Rimuovere.
Lasciare che le cose vadano.

Un po' come vomitare.
Un po' come le palle di pelo i gatti.
Un po' come le macchine, che non fa mai piacere, ma si vede che te lo meriti perché l'hai lasciata in mezzo al cazzo.




martedì 30 settembre 2014

HANDS

Scrivo a due mani perché quattro non le ho.
Ho quattro occhi, ma neppure servono sempre.
Scriviamo qualcosa insieme, hai detto.
Ma come posso?

Una storia non la so inventare. So iniziarla, certo, ma quando ti concentri troppo sulle trame allora i fili si animano e prendono il sopravvento su tutti gli sviluppi che avevi ipotizzato.
Una storia no, che mi perdo tra i dialoghi e tutte le parole che avevo pensato non sono certa di averle soltanto scritte.

Esattamente.
Questo hai detto.

Le storie andranno come devono, io le filerò da qui e tu farai ciò che vuoi dal tuo altrove.
Mi piace essere il fuso che rende meno grezze le narrazioni. Mi piace pensare che quei gomitoli nascano da me o mi si strofinino accanto come zucchero filato.
Con due mani, le mie, che quattro ingombrano.
Quattro sono troppe sempre.
Io non so come si gestiscano due mani in più che si presentano al momento inopportuno.

Se non ci sei quando ti domando, e poi arrivi pretendendo non so quale sia lo spazio che ti spetta.
Non il mio foglio bianco, che è un dono prezioso e spaventoso insieme.
Sono sempre stata convinta che l'importante non sia avere tutti i dettagli chiari già prima di partire.
L'importante è poggiare la penna e imprimere il candore. Quella forza generatrice contiene il potenziale per innescare reazioni a catena.

Le mani sono solo mie, le storie anche e la pioggia di fogli la contemplo in pace.
E mi perdo a fantasticare sui nomi che intimamente raccontano il destino di chi li indossa ignaro.




mercoledì 24 settembre 2014

Summertime sadness

Mi sono persa.
Persa nell'estate.

Quella pigra che non ha concesso nulla come una donna che promette.
Quella vera, cercata altrove.

L'estate dal mare blu come infinito.
L'estate che scalda dentro e fuori, secca la pelle e sa di sale.



Il sale deposita, disegnando arabeschi sulla pelle all'uscita dall'acqua, così come il ricordo del sale ne segna linee di taglio a pochi giorni dal rientro. Sono segni di rottura dai quali il mare si cancella, si alza con forza dall'epidermide e ci consegna all'autunno.

L'estate è un periodo di indeterminazione.
Una pausa.
Una sospensione di giudizio.
Un alibi che permette alle cose di scivolare via come meglio credono senza forzature e senza recriminazioni.



L'estate dura una manciata di giorni, è più una condizione psicologica che non una stagione, per questo motivo lasciarla ci affligge.
La malinconia che ci pervade nel rientro è il dolore di chi si arrende al dover crescere ripetuto ciclicamente.


mercoledì 16 luglio 2014

#unaltrofestival

Sono reduce da una due giorni molto intensa, particolarmente piena di tutto.
Imprevisti, lavoro, musica.
Soprattutto musica.
Un'immersione nella musica totale, galvanizzante, rigenerante.

#unaltrofestival
Un festival, un altro. Infrasettimanale. 
Infrasettimanale? Si.
Pazzesco. Uscire dall'ufficio per abbracciare il roccherrol è una prospettiva inedita che dona la forza di sette leoni.
Bolognese, in cui la mia città si riconferma ombelico e buco di culo. Ma ci stà.
Fieristico. Non troppo poetico, ok.. Ma nel cuore della fiera si sta un po' come in aeroporto: con lo stesso fermento, con la stessa curiosità.

Grazie al Covo Club, che crede nelle novità e ci tiene a confermare Bologna come miglior meta hipster d'Europa.
Grazie al Covo Club perché è casa almeno quanto Barilla.
Grazie al Covo Club che è fatto di tanta gente cazzuta, che cazzutamente ha creduto, cullato e messo in piedi un festival coi fiocchi. Grazie a quella gente cazzuta che s'è sentita figa ma ha strappato biglietti e spazzato a fine serata come sempre.
Grazie al Covo Club perchè ha regalato due line up internazionali da gustare con la stessa intimità della propria cameretta.

Day#1 The Horrors



Day#1 Dandy Warhol



Day#2 His Clancyness feat la K


Day#2 Panda Bear


Day#2 MGMT





domenica 6 luglio 2014

Tropicalia

Ad un certo punto della mia vita, ascoltare la radio è diventato fondamentale.

Stavo preparando la tesi ed ero nel mezzo del niente più assoluto, nel punto in cui non sei più sicuro di come ti chiami e sei quasi certo che se tutti gli altri ce l'hanno fatta, tu no.
Passavo le giornate aggrappata ad un gigantesco punto interrogativo, ma accendevo la radio e istantaneamente l'ansia zittiva.
Così per giorni: tutto il palinsesto, comprese repliche notturne.
Ascoltavo, disegnavo poco, ridevo e scrivevo in redazione.

La prima volta che ho parlato con Anna stavo andando a fare revisione di tesi.
Lei si era laureata da poco e io, nel mio ritardo, ero ad un paio di mesi dal traguardo. Ci siamo rincorse al telefono un paio di giorni poi ero lì, a parlare con amici delle mie vacanze a caccia di Beatles.

Ci ho messo un paio d'anni a decidermi ad andare a trovarli questi amici.
Mi sentivo timorosa per tanti motivi. Si trattava di andare nel posto che avevo cominciato a sognare a dodici anni, e già questo era una operazione ad alto rischio; poi, mi dicevo, è il loro lavoro, magari non importa a nessuno quel che ho da dire.
Invece un paio di casualità mi hanno portato dritta in via Massena nel vivo di una cena tropicalista.

[Per chi non ascolta Tropical Pizza, lo slang con cui la ciurma si esprime è una sorta di gramelot autoreferenziale incomprensibile, mentre una volta abbandonata la diffidenza è morbido come un cuscino]

E allora cena con una ventina di personaggi singolari, ognuno dei quali entrato prepotentemente nel mio quotidiano con energia inaspettata.

E' incredibile pensare che un programma radiofonico possa aver cresciuto un materasso di corrispondenze così sentite.
E' fantastico pensare che questo programma sul materasso ci faccia i salti, come i bimbi sul matrimoniale dei genitori, e che si diverta altrettanto.
E' meraviglioso pensare che chi fa il programma, sceso dal letto, non cambi di una virgola il suo approccio alle cose.

Non fraintendetemi, ho usato cuscini e letti per descrivere quanto di più lontano dal soporifero io conosca. Sono pigra io, Anna, Fosca, Aldino, Francesco e Fabrizio non c'entrano nulla.

Io ragazzi vi ammiro.

Prima di tutto perchè fate il mestiere più bello del mondo e lo fate sempre con stile. 
Perchè l'energia che ci mettete tutti i giorni sfonda le casse (o le cuffiette) ed arriva puntuale, meglio del ginseng o la pappa reale. 
Perchè il cuore non ve lo risparmiate mai.
Perchè avete il superpotere di trasformare in rock tutta la musica che passa tra le vostre mani.

Ogni anno, quando Tropical Pizza chiude per ferie mi sento un po' sola.
Quest'anno è il sesto.






Grazie


giovedì 3 luglio 2014

Andare, camminare, lavorare

Studiare anni per non potersi permettere il proprio lavoro.

Investire, perfezionarsi, impegnarsi.

Fare tardi
Fare di più
Fare presto

Extra time 
Extra budget
Extra ordinario

Da quando il lavoro è privilegio occorre guadagnarsi il lavoro.
Non guadagnarsi da vivere, ma vivere caparbiamente trattenendo con tenacia il lavoro su se stessi.
Creare, rincorrere ed inchiodarsi alla scrivania.

Merito il lavoro.

Certo che quando desideravo realizzare qualcosa con la mia voce, non pensavo esattamente ad un call center.



mercoledì 2 luglio 2014

Mio fratellino ha scoperto il rock'n'roll

Sapevo che i miei trent'anni sarebbero arrivati a chiedermi il conto, prima o poi.
L'hanno fatto ieri sera, senza preavviso, quando per la prima volta ho detto no al pogo selvaggio infrasettimanale.
Eppure oggi il pensiero del mancato sudore mi infastidiva.
Quello di ieri è stato un concerto denso di pensieri.
Un orecchio ai testi, che ogni volta raccontano un tassello mai uguale della stessa storia, un sorriso agli amici e il cuore per mio fratellino.

I tre allegri ragazzi morti sono uno dei gruppi di cui ho visto il maggior numero di concerti.
Quando dividevo la stanza col brother c'erano poche certezze: una era il poster dei TARM, che sarà rimasto fisso alla parete per almeno cinque anni. mentre le tette delle signorie vostre scandivano i mesi contendendo centimetri quadri d'intonaco ai peggiori fumetti geek.
Ai fratelli si dice sempre di no.
Almeno finchè sono mediamente piccoli e soprattutto se sono saccenti e fastidiosi come il mio.
Si dice quel no che è un implicito si.
Si smentisce e si ritratta negando davanti all'evidenza peggio che agli amanti.
Si dice di no perchè sarebbe scontato dire di si e dare in pasto ad un adolescente in subbuglio ormonale tutto il bene che ti esplode dentro.

Perciò NO, a me i tre allegri ragazzi morti dovevano far cagare.

Perchè c'è sempre stata questa spartizione netta dei compiti di casa e delle caratteristiche perciò se i nostri genitori ti hanno fatto genio della matematica, almeno a me deve rimanere l'indiscutibile gusto musicale. Eccheccazzo.

E poi succede che le posizioni nette si sfumano come acquerelli bagnati.
- E allora sai che sti rocchettari non sono male.-
- E allora dai, si va al concerto insieme.-
- Anche se tu pensavi che gli Smiths avessero coverizzato Dimmi?-
- Anche.-

Posso riconoscere il primo punto di contatto tra me e lui nei tre allegri nel momento esatto in cui si valica il confine io Barbie, tu tartarughe ninjia, io serie televisiva tu ginnica fetida.
Quando oltre ad un fratello pedante e minore trovi, grattando, l'individuo con cui infondo ti divertirai una vita.

Da lì tanti concerti, tanti occhi bassi.

E lo so che da sotto la giacca con la quale si infagotta ogni mattina, io e lui non saremo mai come voi.






martedì 1 luglio 2014

Army of me

Forse di due occhi così stretti non ci si poteva fidare.
Di quelle fessure gelose, che non amano lasciarsi guardare.

A quelle feritoie non sfugge nulla.
Hanno abachi ed enciclopedie severamente codificate, piene di indagini ed approfondite introspezioni sulla fascinazione della solitudine.
E a quella glorificazione della singolarità hanno donato idoli di cani soli, con occhi languidi e soli. Bambini soli che giocano soli con oggetti che solamente loro conoscono. E piante, e animali, e creati soli.
Forti nella loro disperata solitudine.
Visibili nel loro isolamento.

Forse neppure dei menti rotondi ci si può fidare.
Della puntualità nel mancare la perfezione.
Dell'ostinazione nel voler essere fuori e con qualcuno.
Della distrazione.

Ma si può oggettivamente constatare la dissonanza e la disarmonia di quell'andare. Goffo, affrettato e pigro insieme.
Da fiatone, sospiri e sbuffi annoiati.
Un passo leggero per non disturbare e pesante nel solco del non avanzare.




giovedì 15 maggio 2014

Golden Brown

Il mattino ha l'oro in bocca, e neppure lo usa.
E' un giostraio gitano.
Ma di sicuro non ride, perché immagina tutto quell'oro scivolare via come il formaggio dalla bocca del corvo.
Penso a tutte le mattine che ho perso mollemente.
Infondo non ne rimpiango neppure una, perché lo scintillare mattutino non l'ho mai capito.
Posso comprendere il gonfiore di tutte le parti di me, arruffate ed irritate per un altro sorgere di sole.
La lucentezza appartiene alla notte, mentre nel sole pieno rimane solo il contorno netto delle ombre.

Sei oro.

Se l'oro abita la bocca, deve di certo nascondersi nelle parole.
E di sicuro non in quelle mattutine, che sono incerte, riottose o impastate di sogni.

Che poi l'oro non si mangia.
E neppure le parole, che al massimo si inghiottono.
Ma trangugiare le parole è più pericoloso che trattenere uno starnuto.
Se ne potrebbe morire.

Le parole devono fluire.
Trovare la strada, scavare la gola e disperdersi.
Sciogliere le fila, srotolarsi, caracollare fuori dai denti.






domenica 11 maggio 2014

Chiedimi se sono felice

Chi l'ha detto che l'amore toglie la fame?

La felicità ingrassa. 
È piena, allarga il viso quando ridi, non viaggia mai sola.
La felicità è un momento che si moltiplica facendo ritorno.
È un pranzo in cui porti le pietanze migliori e ad attenderti trovi piatti ancora più buoni.

La felicità è un buffet a cui nessuno spinge per mangiare. Sono tutti educati, sorridono e ti chiedono anche se vuoi favorire per primo. 

Al rinfresco della felicità nessuno avanza con le mani a paletta per spazzare i vassoi; nessuno chiede un bis, un tris ed un quadris con la scusa di figli e nipotini; a nessuno sfiora il pensiero di riempirsi le tasche di polpette.

Al tavolo della felicità ci sono bambini: urlano, corrono, sono scomposti e sudaticci, ma per una volta non m'interessa. Li trovo carini.

Per ora, ho preso quasi due chili. 









sabato 19 aprile 2014

#RecordStoreDay

Il mio rapporto col vinile è stato sin da subito sensoriale, fatto di tatto e di odorato con il tipico approccio bavoso dei bambini piccoli; probabilmente avrò anche azzardato un contatto di tipo gustativo, ma onestamente questo particolare ora mi sfugge.

Ricordo di aver avuto poco più di due anni ed un mangiadischi cicciotto di colore rosso. Questo oggetto, che molto probabilmente avevo ereditato da qualcuno, aveva un dorso bucherellato sulla cassa, nel quale spingevo le dita durante i primi ascolti forsennati.

I dischi dei miei e dei miei nonni erano una sorta di gioco che mi venne concesso presto, dandomi la possibilità di sviluppare preferenze ostinate fin da subito.
Nel mangiadischi rosso, in heavy rotation, la Carrà fuoreggiava con Fatalità (ti amo ti amo ti amo ti amo) e Tele Telefonarti. Non ho idea di chi avesse comprato quei dischi e perchè, ma sono stati indubbiamente la base. Fosse anche la base di un disagio. Insieme, qualche favola sempre su vinile e  lo Ska Chou Chou, un singolo di Cecchetto che in qualche modo piantava semi di Pop Corn nella mia giovane mente.



Crescendo un po' ma avendo comunque interi pomeriggi piovosi da impiegare in campagna, le mie selezioni dalla discoteca viravano dal giovane Modugno, alla versione Philippinian-surf di un classico di Wilma Goich ad opera dei Les Surf.



Impazzivo per Harry Belafonte, che in effetti era uno dei preferiti di mio nonno. Soprattutto Shake Senora. Quanti trenini improvvisati in solitaria, sul dance floor di cotto incerato della sala di nonna.

E poi la mia preferita di sempre, Caterina Valente.
L' elleppì che avevano i miei aveva una copertina fuxia sulla quale si stagliava lei, Caterina, a tutta figura, con questa acconciatura vaporosa talmente platinata da essere bianca. Mi sono interrogata tantissime volte sul perchè quella donna che non mi sembrava affatto vecchia avesse i capelli bianchi, ed ho concluso che doveva essere una sorta di eccezione, come per la fata Turchina, perchè una voce cristallina come quella della Valente è magica.


Nel bene o nel male questo è l'humus attraverso il quale ho imparato ad amare la musica, a carpirne i racconti e gli intrecci, immaginando storie tra i testi che riuscivo a comprendere. Devo ringraziare i miei per essere stati fruitori distratti, che poco peso davano alle collezioni. Io, vi prometto, non sarò altrettanto brava.

mercoledì 26 marzo 2014

Still Broke

La tua camera se la sono presa i gatti, io sono rimasta di là, coi sogni salvati sul desktop.
Hai il rock nelle cicatrici e trasporti vita e tensione e sbavature di matita. Ti osservo mentre abbracci tutti da lontano, con occhi muti e profondissimi.

Non ti rendo niente.
Puoi scassinarle queste parole. Le troverai gusci di molluschi migrati.
Per te non c'è che questo.

Mi lascio frugare via pensieri dalle tasche.
In tempi diversi, dispari, spezzati mi troverai sfuggente. Già baciata.

Scivola la presa dalle mani. È un blues, un jazz, un alibi qualunque.

Disperdo.
Semino.
Libero.

La traccia che lasci, il volume che hai spostato. Filato di lamè. Fiato di povera polvere.


lunedì 3 marzo 2014

Rich girl

Ho sempre avuto una percezione di me stessa e della realtà che mi circonda abbastanza distorta.
Per questo motivo quando ero alle elementari, o anche prima, credevo di essere una delle bambine più ricche della mia classe.
Del resto quella era l'epoca in cui credevo ancora che sarei potuta diventare col tempo una principessa, o meglio ancora una regina, non si sà mai. Era l'epoca in cui tutto ciò che desideravo poteva esistere, e credo che, dopotutto, non esista una ricchezza più grande. Quindi a ragion veduta mi sentivo ricca.

I fatti però sono sempre distanti dalla mia più intima convinzione. E per questo qualche volta mi sono scontrata con la realtà, ma non sono stati grosse botte; piuttosto qualche abrasione che comunque non ha cambiato la mia certezza di essere dalla parte dei baciati in fronte dalla fortuna.

Ancora oggi mi sento ricca, anzi ricchissima: ho tanti preziosissimi diamanti immaginari, mazzette e mazzette di fantadollari nascoste sotto il letto e la convinzione che tutto ciò valga molto.

Ho tantissime skills ed un curriculum zeppo di abilità che nessuno pagherebbe un soldo bucato, ma che a me sembrano essenziali.

Ho la passione per i tramonti, mi emoziono ad ogni arcobaleno, invento favole mai uguali, sogno tantissimo e nonostante la miopia ho occhi che traguardano alcuni ordinari confini.

Non ho senso dell'orientamento.
Pecco di fiducia in me stessa.
Sono pigra da fare schifo.
Vorrei essere sistematica, ma non lo sono.
Non ho il fiuto per gli affari.
Non so chiedere e neppure insitere.
Sono cocciuta.

Ciò nonostante, sono ricca.



giovedì 27 febbraio 2014

Quest'amore è una camera a gas (Fotoromanza)

Ho sempre vissuto le mie emozioni con grande teatralità.
Sin da piccola, qualsiasi istinto primordiale diventava gigantesco, meritevole di lacrime, lamenti ed una interpretazione drammatica sempre degna di oscar.
La sindrome della protagonista mi ha fatta prigioniera subito, ed immediatamente mi sono scontrata con la dura realtà e l'impossibilità di essere la prima donna universale. Porkaeva!
Il vero casino è successo quando, crescendo, l'amore (o presunto tale) s'è affacciato nella mia vita.

Mi sono sempre fatta ipnotizzare dal dettaglio.
Sono vittima del dettaglio.
Della parola ricercata buttata con nonchalance al momento giusto.
Del riccio scomposto che si cala ostinatamente sulla fronte.
Dei gesti che non sai di compiere ma fendono l'aria in maniera così perfetta.

Invece di ricevere ripetuti TSO, me ne sono rimasta a piede libero a gonfiare deliberatamente queste inezie fino a farle diventare fondamentali per un vivere appagante.
Non sono capace di non magnificare estremamente le situazioni, le persone, i panini e le telefonate che regolarmente inciampano nella mia esistenza. Sono un megafono, sono un amplificatore sensoriale, un fottuto lievito, una shakerata di cocacola.

Per mia grande fortuna, però, riesco a riacquisire lucidità rapidamente; ed allora mi trovo davanti un esercito di soufflè mal cotti, torte ingobbite assolutamente crude dentro, e grissini bruciacchiati. C'è da ridere e riderne di gusto.
E' come osservare rapiti la sinuosa movenza di una medusa in acqua, per trovarsela poi spiaggiata a fine bagno. Il ritmo regolare del ventaglio di tentacoli, le trasparenze di velluto, le sfumature incredibili di colori così invitanti sono poca cosa davanti alla carcassa disidratata e già odorosa cozza avvizzita.

Mi consolo ritrovando la ragione con l'arcobaleno, come premio manco fosse la pignatta piena d'oro. Certi meccanismi mi mettono in salvo, in qualche modo affatto comprensibile, mi danno la dose di fiction necessaria per sentirmi dolcemente complicata. Ho studiato affondo il problema e so definiro scientificamente.

Sono gli amori-peto: quelli che passano finito il rumore.



lunedì 24 febbraio 2014

Grazie dei fior

Ho questa sorta di attrazione fatale per la kermèsse fiorita, chi mi frequenta-social nei giorni scorsi se ne sarà sicuramente accorto.
Non so esattamente come sia nata questa mia mania; forse tra i trentatrè di nonna, o forse tra i testi in anticipo nel copioso inserto di sorrisi. In ogni caso tanto, tanto tempo fa.

Quest'anno Sanremo ci ha offerto uno spettacolo stanco, dalla conduzione svogliata, dalle battute mosce.
Forse l'italiano medio non ricorderà neanche gli ospiti, fatto salvo per il Lucianone Ligabue che ha letteralmente fatto spellare le mani agli astanti.
E per il popolare Renzo Arbore il cui abbandono di palco temevo sarebbe stato provocato da spari ad altezza gambe.
E l'immenso Gino Paoli chiamato a dare lezioni di stile intramontabile.
Mi sento di salvare tutta la vita Damien Rice, e il mio adorato Paolo Nutini insieme a Rufus Wainwright sfuggito miracolosamente da un linciaggio mediatico sponsorizzato dai papaboyz. Certo questo tris rimane poco noto tra le casalinghe di Voghera, ma questo è stato un festival atipico.

Non ho amato nessuna canzone e, di fatto, non può essere una vittoria per nessuna manifestazione musicale.
Il mio impegno costante in questi giorni è stato quello di sottolineare ed esasperare tutti i particolari degni di nota.

Continuo a non capire il significato di una serata-tributo alla musica italiana in cui i big in gara, come tornando agli anni di gavetta, si cimentano in cover fedelissime ma mai all'altezza. Sanremo dovrebbe essere una sorta di reparto ricerca e sviluppo della musica italiana, invece si perde nella celebrazione di un partimonio culturale troppo pesante per essere superato.

Mi cimento in un pagellino di alcuni brani, giacchè ci siamo:

Gualazzi/Beetroots: un mix letale tra zucchero e sisteract -ma più incantabile- con un pizzico di soo-le-maney.
Arisa: inutilmente radiofonica.
Noemi: sguaiatamente convinta di trionfare, con una canzone tossita con la grazia di un masticatore di tobacco.
Palma: prevedibilmente orecchiabile ed immancabilmente retro'.

Il resto, giuro, non me lo ricordo.
So che Rubino aveva la mia approvazione ed i Perturbazione anche, ma soffro di amnesia musicale.

A discapito delle canzoni neppure troppo obsolete, voglio ringraziare di cuore quei meravigliosi ninnoli che hanno allietato le mie serate.
In ordine sparso:
  • le poppe di Arisa;
  • la manicure con base trasparente di Sarcina;
  • il baffo -apparecchio- placcato oro che Noemi ha usato a mo' di collana la prima sera;
  • i tailleur sbagliatissimi della Ruggiero (sì, ci vuole la i);
  • il parrucchino di Ron ton sur ton con sopracciglia e fondotinta;
  • Renzie, fuori gara ma presentissimo;
  • la Mannoia, troppo sexy per una serata di pianobar;
  • Palma e il miracolo della vista ritrovata;
  • il Repetto dei Tiromancino, Riccardo Sinigallia.







giovedì 13 febbraio 2014

Get on board

Quando ero piccola avevo alcune certezze incrollabili.
La prima era che da grande sarei diventata una principessa, ma se ciò non fosse stato possibile avrei volentieri fatto la cassiera alla coop.
La seconda era relativa alle mie doti artistiche: ero certa che il mio sarebbe stato un futuro ricolmo di musica e di ballo.
La terza é la convinzione che ciò che il mio prossimo fa sia anche nelle mie possibilità.

Di questi tre capisaldi qualcosa s'è avverato, qualcosa no; per inciso, sto ancora cercando di diventare cassiera al supermercato.

Ci sono alcune situazioni, alcune fantasie ed alcuni personaggi che incidono profondamente sui percorsi di crescita.
Per me è stata di fondamentale importanza Shirley Temple (non me ne volere Raffaella, ti dedicherò un post). Se dovessi oggi analizzare la figura della diva bambina, dovrei riconoscere che la sua fama precoce, i sentimenti su cui faceva leva e gli atteggiamenti inappropriati che l'hanno resa famosa sono stati dannosissimi e precursori di alcune piaghe sociali che prolificano anche oggi.
All'epoca però non ne sapevo nulla e mi bevevo adorante tutti i suoi film sognando il tip-tap. Ricordo paia e paia di scarpette in pelle lucida. Ricordo tentativi goffi ma tenacissimi di imitare allo specchio i movimenti. Ricordo anche mille segni di gomma nera sul parquet della camera dei miei genitori. E mio padre che per scherzarmi diceva "non è una bambina, è una nana di trentacinque anni".
Oggi i trentacinque anni li accetterei; e poi non é vero pà, ti stai confondendo con Arnold.
E anche la precoce invidia del ricciolo d'oro è accettabile se rapportato a quella condizione serena di magica porporina nella quale per mano mi conduceva Temple ogni volta che affacciata al piccolo schermo mi commuovevo per le storie di miseria di cui era sempre protagonista. Mi indignavo per i soprusi dei fratellastri, per gli abbandoni subiti -alcune storie erano da segnalazione al telefono azzurro-, mi incantavo davanti alle coreografie.

La realtà Shirley è che probabilmente ti saresti divertita di più se fossi stata una mocciosa qualunque come me, ma non posso che ringraziarti e detestarti allo stesso tempo per i sogni di gloria con i quali hai plagiato la mia giovane mente.


lunedì 10 febbraio 2014

Time to pretend

Il tempismo non esiste.
E' una mia convinzione da sempre e oggi sono pronta a ribadirlo, nonostante questo mio assunto abbia vacillato un poco.

Il tempismo è una montatura.
E' una scusa pronta con la quale si giustificano spesso scelte. Anzi, è una giustificazione dietro la quale ci accomodiamo per non scegliere mai.

Se esiste una possibilità, ignorarla ed andare avanti pensando che "non sia tempo" non è la soluzione.
Il "tempo" non è rimandabile.
Certo, è molto più difficile ammettere di non volere qualcosa, essere sinceri anche con se stessi scontenta. Non esiste situazione senza alternativa, ma decidere è difficile, stancante, bisogna prendere in considerazione la possibilità di essere in errore e quella di fare molta fatica.

Scrivo questo per me stessa, per ricordarmi sempre che la variabile "tempo" non è una risposta accettabile.
L'ineluttabilità del conseguente susseguirsi degli eventi non è una risposta accettabile.
Siamo eseri pigri ed abitudinari, ritenerci responsabili è un peso troppo grande da accettare per noi turisti della vita.

Abbiamo deciso di ignorarci, di non ascoltare noi ne gli altri; e quando le cose prendono una piega inaspettata bisogna riabilitarsi, leccarsi le ferite, calmarsi e darsi tempo per essere nuovamente in grado di capire chi siamo e dove vogliamo andare. Salvo scordarsene subito.


Intanto il tempo corre.




lunedì 3 febbraio 2014

Un cocktail d'amore

Il web è un ricettacolo di ottimi consigli non richiesti.
I consigli non richiesti si allineano e proliferano come miuscoli microrganismi fino a prendere forma, l'inconfondibile forma del blog.

Tra i blog, i fashion sono il massimo nel tratteggiare vite al limite del plausibile.
Giorno dopo giorno vengono esposte tutte le struggenti problematiche tipiche di quelle donne che non riescono a prepararsi in meno di due ore; quelle chimere che usano almeno tre creme viso, una base trucco, un primer, un toner, un fondotinta, cipria e fixer; quelle che vanno in ufficio col tacco dodici e riescono a programmare nella giornata almeno un paio di ritocchi al makeup.
Non sono sicura di aver mai visto qualcuno di così equipaggiato. Se questa gente esiste veramente, certo neppure i sette gradi di separazioni le rendono vicine ai miei circuiti.

La settimana scorsa, mentre ero intenta nel cercare "immagini evocative" sono incappata in un interessantissimo articolo tema cocktail (qui).

"Fatti in un momento della giornata in cui si è soliti staccare dal lavoro, si arriva spesso a pensare che ci si possa presentare reduci di tutta la giornata. Nulla di più sbagliato. Il momento del cocktail è un momento in cui si dovrebbe sognare. Dunque, se proprio non potete cambiarvi, assicuratevi almeno di essere pettinate, ben truccate, profumate, rinfrescate."

L'ansia.
 
Posto che il concetto di "staccare dal lavoro" spesso e volentieri non è detto che coincida -ahimè- con l'orario aperitivo, il fatto che una volta varcata la soglia dell'ufficio io possa essere "pettinata, ben truccata, profumata e rinfrescata" è una ipotesi altamente improbabile. 

Forse perchè il fondotinta a metà mattinata ha già abbandonato la mia faccia per finire fisso ad imbrattare il bianco candore della mia tastiera di design.
O forse perchè il kajal mi cola fin sulle gote e se solo potessi rosicchiare uno stelo di bambù sarei la perfetta controfigura di un panda gigante.
Forse perchè tutte le volte che cerco di sembrare una "signorina" qualcosa va storto ed allora inciampo, mi macchio con il pranzo o come minimo mi rincalzo le mutande nella gonna.

E poi l'uffcio è spesso scazzo e lo scazzo è quanto di più lontano ci sia dal sogno.

Il sogno me lo porto da casa.
Ed è comodo, impigiamato, soffice e rotondo.
Non abbiamo bisogno dei balli, abbiamo smesso di sentirci cenerentole fiammiferaie.

Il sandalo gioiello è più finto del tesoro di Willy l'Orbo.
Il tacco duole.
Al tacco preferisco il tacchino. Con le patate.

Un altro cocktail, prego.

 

venerdì 31 gennaio 2014

Maria, chiudi quella cazzo di busta!

Sapevo che anche io avrei avuto i miei cinque minuti di celebrità.
Solo non pensavo in questo modo e per mano della Mari-ona nazionale.
Ma perchè Marì?
Odio i cani e pure te, e non ho mai fatto nulla per nasconderlo.
Su una cosa non ti posso dare torto...




ps: nessun cane è stato maltrattato per realizzare questo fotomontaggio.
pps: non è vero che odio i cani.
ppps: anche queste sono saKisfactions.


lunedì 20 gennaio 2014

C'è crisi

Peggio della crisi nelle tasche c'è quella nel cervello.

E un numero sempre crescente di persone va a spasso portando sulla testa una boccia da pesce rosso piena solo di acqua e merda.
Il mio pensiero vola da chi pensa cose che non voleva intendere, chi intende ma poi precisa che si trattava solo di campeggio.
Raggiungo con questa mia chi non ha chiarezza di azione, pensiero, e sentimento.
Anche la dipartita richiede saluto.

Oppure semplicemente, fa niente.

PS: a proposito di pesci rossi, andate a farvi un giro su http://goldfishstories.tumblr.com/ a me migliora sempre la giornata.


venerdì 17 gennaio 2014

Re-Gift

Sono una professionista dell'accumulo.
Tendenzialmente, non me la  sento neppure di buttare quel blocchetto con ancora quattro pagine bianche, quel mozzicone di gomma che arriva dritto dalle elementari, quel moncherino di matita con i Popples sopra.

Figuriamoci se nella vita ho mai pensato di liberarmi di un dono neppure troppo apprezzato.
Ho sempre avuto la fobia che poi avrei dovuto dimostrare di possedere ancora il tremendo oggetto. Allora via, accatastare, tenere, conservare, neppure abitassi a Versailles.

Ci sono alcuni regali che arrivano non voluti, creano imbarazzo, stabiliscono legami laddove i legami non vorrebbero esserci. L' oggetto diventa incarnazione del mittente dal momento stesso dell'entrata in possesso; immaginate scaffali, librerie piene di temibili prendipolvere che vi osservano con occhi indagatori; il nido si riempie di zavorre con le quali sovrappensiero familiarizzamo, ma che sempre portano un'etichetta col nome sbagliato.

Non credevo potesse essere così liberatorio lasciarsi alle spalle regali malvoluti, invece è un'esperienza che dovreste provare tutti.
Avete un'occasione perfetta per farlo, domani, durante il re-gifting day. E non solo, la cosa potrebbe portarvi anche un congruo guadagno, perchè il mezzo attraverso il quale potete effettuare il riciclo del brutto regalo è e-bay.

Defenestrate le zavorre, che il volo è più leggero.


giovedì 16 gennaio 2014

I just don't know what to do with my...TETTE

Le tette sono uno degli elementi che più hanno influenzato la mia infanzia.
Mia madre non le aveva, ma io vivevo nella certezza che , a tempo debito, le mie si sarebbero palesate.
Inutile dire che la mia speranza fu vana.

La condizione di "tavola da surf" mi è sempre pesata. Specialmente perchè sono una tavola da surf con le spalle larghissime.
Mio padre, per sollevarmi il morale (infruttuosamente, peraltro) mi diceva sempre:
"a Giù, nun è che c'hai le tette piccole. E' che hai le spalle gradi: se sperdono!".

Alla fine però la ragione me la sono fatta, ma ad aiutarmi ad accettare la mia condizione bidimensionale ho avuto un grande supporto.
Lei, che oggi compie 40 anni e mi ha fatto capire che "sexy" e "asse da stiro" sono parole che possono coesistere nella stessa frase.

Auguri Kate, cento di questi giorni sregolati e piallati.




martedì 14 gennaio 2014

#CoglioneSi

Alla fine siamo tutti coglioni.
Oppure lo siamo anche dall'inizio, almeno da quando scegliamo il percorso di studi, sapendo di imbarcarci in un'avventura professionale che ci darà tanto e ci toglierà di più.
Un'impresa da armata Brancaleone, una proposta inaccettabile che non ci sentiamo di tradire neppure durante le feste comandate, neppure con la febbre a 39 all'una di notte.

Bisognerebbe forse avere meno orgoglio accettando o cercando qualcosa che non vada necessariamente per il verso “creativo”, ma quella è una vena che batte fortissima e a cercare di ignorarla ci si spegne.
Faccio più di un lavoro.
Collaboro con una radio ad una trasmissione culturale e pensavo fosse quello il mio hobby.
Ma da quando non ho la certezza di retribuzione per il lavoro che comunque svolgo regolarmente, ho pensato che se produci con professionalità o sei un volontario, o hai un hobby.
Ho deciso di ricominciare a lavorare "gratis" per cercare di creare una possibilità alla mia azienda.

La scelta risiede nel "lavoro a supporto della vita" vs "vita a supporto del lavoro".

Scegliendo la vita per lavorare saremo eternamente distanti dalla normalità, probabilmente afflitti da un tasso di ansia sopra i livelli di guardia,  euforici a tratti, dipendenti da caffeina e con un disturbo patologico dei ritmi sonno-veglia.

Scegliendo il lavoro per la vita ingrigiremo, forse avremo una famiglia, la creatività verrà a tirarci i piedi nel sonno e forse avrà un risvolto nelle ore di veglia, per i più bravi, quelli che saranno riusciti a non affogare negli strati più profondi del proprio subconscio l'arte dell'inventare.

Uno o l'altro lato del fungo di Alice.

Non so esattamente quale sia il bene.
Ho ancora bisogno di riflettere molto, ma la vena autodistruttiva che è propria dei nati sotto il mio stesso segno, non mi fa dormire serena.


Come colonna sonora a questo post potevo scegliere un pezzo di Povia (sei scemo) , ma poi non me la sono sentita.